Passaggi obliqui

di Rossana Bossaglia, 1988


Se dovessimo cercare un’area storica dove collocare l’attuale pittura di Marilisa Pizzorno, se dovessimo cioè identificarla con un’etichetta, potremmo parlare di un’aria metafisica, o metafisico/surreale; e, dovendola in ipotesi descrivere a qualcuno che non abbia visto i quadri, sottolineare come il discorso si svolga in termini di figurazione, collocandosi nella corrente che, in Italia soprattutto, a partire dagli anni Sessanta ha inteso praticare un’arte naturalistica ma non veristica, rigorosamente accademica nel senso della forbitezza formale ma insieme percorsa da una crudezza spiazzante, da “arrière-pensées” modernamente misteriose.

In questo modo Pizzorno, elaborando e definendo una sua maniera che aveva già avuto occasione di manifestarsi nella sua produzione precedente, è venuta a incontrarsi con qualcuna delle formule di tipo citativo oggi in voga; un incontro molto per modo di dire, non essendoci nel suo discorso alcun riferimento mnemonico preciso quanto a immagini; come, d’altra parte, l’acre taglio moderno non consente alle sue immagini stesse di qualificarsi nell’eredità iper-realista, perché le percorre una nobiltà mitica, di sostenuta significazione simbolica, che trascende ogni identificazione con le apparenze immediate. E, del resto, basta guardare i bellissimi disegni, palpitanti di sensibilità, sorvolati e intrisi di soffici luci ed ombre rossastre, per capire quanto poco impassibile sia, pur nel rapporto con le tematiche classiche, questa vena di inquietante asciuttezza.

In realtà Pizzorno racconta nei suoi quadri – in questi grandi quadri dai tagli obliqui, dove il punto di vista e lo stesso “pondus” dei personaggi sono continuamente rovesciati e rimbalzati – racconta, si diceva, la propria storia: non solo perché si riconoscono nei modelli le persone della sua famiglia – e la sua persona stessa -, ma perché è evidente, per quanto ambiguo, il riferimento a un racconto interiore. Un racconto dove bellezza e giovinezza, rappresentante in forme purissime sino all’ascetica tornitura delle teste calve, ed espresse sulla falsariga dei miti di Narciso e Icaro – o i due insieme -, sono di continuo sul punto di perdersi e di ritrovarsi, scambiandosi i personaggi le parti e la loro identità medesima, rovesciando l’esito in principio, volgendo le spalle alla soluzione del mistero, riapparendo dietro le quinte della conclusione: come se i personaggi, appunto, diversi ma simili, fossero momenti e situazioni di un unico personaggio e la vita si ripetesse o rimbalzasse o ritornasse da uno all’altro, nel momento stesso in cui essi si incontrano e sfiorano. Uno spettacolo ritmato da misteriosi colpi di scena e non mai giunto alla conclusione: il velario è anche manto – o sudario -, e a volta a volta offre protezione o trascina in un empito di vento; insieme con i toni grigio-azzurrini, suggerimenti di cielo, domina un celeste liquido e lucente: acqua, specchio, luogo della riflessione, della fuga e del ritorno.

Una pittura di grande impegno, dove l’artista sfrutta il meglio della propria padronanza di mestiere e della propria esperienza formale per dire cose oltre la forma. E dove l’apparente glacialità espressiva cela una profonda trepidazione di sentimenti.