Olii recenti
di Franco Solmi, 1980
Forse giustamente i critici e gli studiosi d’arte che si sono occupati del lavoro di Marilisa Pizzorno hanno sottolineato, insistendo in sottili tentativi di decifrazione, il carattere simbolico, o simbolistico, dei personaggi della pittrice. Non aggiungerò quindi molto a quanto è già stato detto in proposito da chi ha voluto, nel simbolo, rilevare il senso di vuoto e di privazione, e nell’immagine fattasi metafora ha per contro cercato le tracce dell’impegno – o addirittura dell’engagement – dell’artista in problematiche del quotidiano, da quella della condizione della donna alla più dilatata questione dello status sociale dell’eremita di massa.
Per quanto mi riguarda, data debita registrazione di queste letture, penso sia di qualche interesse soffermarsi sullo specifico linguistico così come viene definendosi dell’opera della Pizzorno che si distingue da quella di altri pittori dell’immagine non tanto per il suo aggancio con il reale ma piuttosto per la misura in cui da questo reale prende distanza privilegiando, del quotidiano, una dimensione metafisica e, della memoria che del presente si può avere, il momento impercorribile della spettralità. Il simbolo, coerentemente, si fa struttura e perde quelle connotazioni di oggetto stranito e inafferrabile che ha, poniamo, nelle poetiche dell’onirismo per rimandare con qualche protervia soprattutto a se stesso: valore plastico, quindi portato a costruire l’irrealtà anziché a dissolvere ciò che diciamo il reale, come invece avviene nel sogno. Troppo cariche di memoria – del futuro come del passato – sono le immagini mediterranee della Pizzorno per potersi davvero reggere sulla contingenza del presente. Esse lo travalicano e nello stesso tempo lo fissano nel rigore degli antichi ordini classici e nella logica spettrale della prospettiva, strumento principe della memoria estetica che consente di sprofondare nelle infinità dei piani, nel groviglio inestricabile di limpidissimi misteri. Il sogno, diceva Savinio, è smemorato ed anche senza presente possibile perché “senza il ricordo dell’ieri e senza la speranza del domani, il presente crolla e svanisce, come crollano e svaniscono i sogni”.
Ora, io non voglio certo affermare che Marilisa Pizzorno coltivi memorie e speranze in un momento in cui ogni ricordo è un brano d’angoscia e ogni speranza sarebbe, realisticamente parlando, una illusione imperdonabile. Intendo soltanto dire che queste categorie vanno intese in senso estetico, nei modi dell’irrealtà, ed allora in quel gioco di spettri che è l’arte potranno essere reinventate proprio come si possono reinventare a teatro o nell’area rituale delle celebrazioni, riverenti o irriverenti che siano. Se si resta alla superficie delle opere, se non si penetra negli ordini irrespirabili della Stanza delle impronte, se non si partecipa all’impossibile colloquio delle forme, diverrà importante ciò che vi è descritto e non quello che vi è narrato: l’angoscia esistenziale, ad esempio, o la privazione da sudario, motivazioni di cui si cercherà il senso non nel dipinto, ma al di fuori, nell’autobiografia dell’artista portata anch’essa in superficie.
Se invece si seguono le linee del linguaggio, i valori plastici ripresi dalla pittrice con l’improntitudine di un Escher al quale sia stato negato l’artifizio dell’illusione, si potrà cogliere la profonda spettralità di una memoria venuta ad infittire il mistero dell’opera, a togliere ogni potere salvifico o consolatorio, a farne ripetizione e simulacro (non simbolo) di un presente ove l’illusione e la finzione, i magici poteri dell’arte, non sono concepiti se non in termini d’inganno.
Il che può davvero dar segno d’angoscia, ben oltre la dimensione dell’autobiografia. Che poi la Pizzorno sia artista inquieta e perfino capace di coltivare risentimenti non sopiti o ripulse irrinunciabili, lo prova la quasi perversa capacità che dimostra nell’infittire i reticoli del suo labirinto, di chiudere in prospettive ben più pesanti d’un sudario le larve che fingono qualche umanità (e qualche umanesimo) in quella sorta di scatola per dannati che è la struttura dei suoi quadri. Ma chi potrebbe parlare di realismo, o anche solo di naturalismo e di trasposizione simbolica per questi incastri metafisici che il quotidiano riesce appena a inquinare di qualche spettrale riflesso? Io credo che ogni lettura debba quindi partire da una constatazione di assenza (condizione prima per la liberazione della memoria) per penetrare davvero in questi lontananti cristalli pittorici in cui si riflettono le immagini di un presente mitico e rituale.