Il fregio della vita e il villaggio dell’attesa

di Gabriele Simongini, 2013
 

Ci sono artisti che hanno timore delle proprie opere come se esse fossero fantasmi minacciosi. Non sopportano di vedersele dentro casa, ad esempio. Così Augusto Perez, inquieto ed insigne scultore ingiustamente dimenticato, copriva le sue sculture con un panno bianco, per non vederle ma soprattutto per non essere guardato da loro. Forse perché, come diceva Rumi, il grande poeta e mistico Sufi del XIII secolo, “le immagini che creiamo possono trasformarsi in bestie selvatiche e farci a pezzi”.  Invece altri artisti considerano le proprie opere come gli unici veri amici. Era questo il caso di Edvard Munch che, dopo aver scelto la solitudine come sua unica compagna, voleva essere circondato solo dai propri quadri, in una sorta di assoluta condivisione spirituale. Ecco, mutatis mutandis e fatte le debite proporzioni, Marilisa Pizzorno appartiene a questa seconda schiera: le fanno compagnia le sue figure femminili e maschili, nude e glabre, essenziali e spoglie come le rocce e soprattutto come le architetture che popolano i suoi quadri. Quell’umanità originaria e pura dà immagine al suo desiderio di libertà e di espansione spirituale, di cristallina trasparenza morale, come un eden un po’ malinconico che risiede in architetture di fatto inabitabili (de Chirico docet), spalancate sul mare blu cobalto e sul cielo solcato da nuvole iridescenti, in una ambientazione paesaggistica che forse è memore anche della solare e scabra Sardegna che ha dato i natali a suo padre. Gli uomini e le donne dei suoi quadri sono lontani, quasi in esilio, rispetto al mondo di oggi, pragmatico, aggressivo, ipertecnologico, massmediatico, capace di schiacciare emozioni e sentimenti in un coacervo indistinto ed asettico. Anzi, forse sono figure che devono ancora nascere e gettarsi nell’agone esistenziale. Sono immerse nell’attesa, nell’incertezza di compiere o meno azioni definitive, senza ritorno.

Marilisa, dotata di una magistrale sapienza tecnica sia pittorica (non va dimenticato, tra l’altro, che sua madre era un’abile ritrattista) che scultorea, realizza così, con paziente concentrazione e notevole espansione immaginativa, il suo grande fregio della vita, fatto di tanti quadri, ora in mostra e che ha il suo centro ideale e plastico nella scultura del villaggio in terracotta affacciato sul mare, in attesa dei suoi abitanti, quelli ritratti nei dipinti e che sembrano poterlo abitare solo nello spazio della pittura. Siamo nel territorio di un enigma quasi lirico ed elegiaco. Le donne e gli uomini immaginati da Marilisa Pizzorno hanno abbandonato il villaggio per qualche misterioso motivo o sono sul punto di andarlo a popolare? O forse lo abitano soltanto in una dimensione onirica, quella evocabile con la pittura? Lo sognano come Ulisse ambiva ad Itaca durante le sue perigliose avventure oppure se ne tengono lontano come un luogo da evitare? Ecco, questo andirivieni e fantasioso cortocircuito fra pittura e scultura, che potrebbe essere in futuro ribaltato nella scelta di dipingere soltanto architetture disabitate e di modellare figure solitarie, costituisce uno dei punti di forza inventiva del percorso di Marilisa Pizzorno. Ai nostri occhi, indipendentemente da gusti artistici precostituiti, queste figure sognanti, malinconiche, non di rado alla ricerca dell’amore, impegnate in dialoghi silenziosi fatti di sguardi ed intrecci di mani, rivelano una poetica verità emotiva. Il che, oggi, è già tanto. In questa umanità fatta di persone, prima ancora che di uomini e donne, si cela, pacata ed umile, una spontanea riflessione ontologica sul senso della vita, sul tentativo di sforzarci di diventare quello che siamo veramente, nella nostra più profonda intimità. Un invito rivolto a tutti noi, a non nasconderci dietro orpelli, finzioni, mascheramenti, conformismi, abiti materiali e mentali che camuffano la nostra realtà interiore, che spesso ci sfugge, drammaticamente, per tutto il corso della nostra esistenza, fino al momento in cui moriamo senza aver conosciuto noi stessi, in una condizione di estraneità rispetto al senso profondo del nostro essere stati nel mondo. Di fronte alle figure pensose e sognanti dipinte dalla Pizzorno, lontane dal chiasso vuoto e superficiale del nostro tempo, vengono alla mente i mirabili versi di Constantinos Kavafis: “E se non puoi la vita che desideri/cerca almeno questo/ per quanto sta in te: non sciuparla/ nel troppo commercio con la gente/con troppe parole in un viavai frenetico./ Non sciuparla portandola in giro/ in balia del quotidiano/gioco balordo degli incontri/ e degli inviti, / fino a farne una stucchevole estranea”. Ecco, gli uomini e le donne dei quadri di Marilisa hanno dismesso i propri precedenti abiti materiali e mentali per concentrarsi, in completa nudità fisica e spirituale, sulla ricerca di se stessi in rapporto anche all’altro. O forse, viene da domandarsi, sono un gruppo di angeli che stanno per gettarsi nella vita, per diventare umani, come avviene nel film “Il cielo sopra Berlino” di Wim Wenders? Senza dubbio, in diverse opere di Marilisa Pizzorno vive con forza l’enigma del volo e della caduta che forse rivela la paura di gettarsi a cuor leggero e con piena partecipazione nel mare tempestoso della vita. La sua ricerca non rifiuta comunque il confronto con le emergenze storiche del nostro tempo, pur riportandole nel proprio territorio coerente ed immaginifico, incentrato sulla nuda essenzialità di corpi ed architetture che evoca una cristallina dimensione interiore. Lo si vede bene nella tensione drammatica che anima l’agitazione delle tre figure maschili che corrono verso qualcosa o che fuggono, immagine emblematica che l’artista ricollega al vento rinnovatore della primavera araba. Anche qui, come nei quadri in cui non sappiamo se il motivo della caduta abbia o meno un lieto fine, Marilisa Pizzorno dà immagine ad una situazione aperta, pacatamente enigmatica, per certi aspetti anche metafisica (il barbaglio di luce che nei suoi orizzonti separa il cielo dal mare è senza dubbio una memoria dechirichiana) ma sempre purificata da qualunque inquietudine troppo incombente o minacciosa. In effetti, contrariamente a quanto accade nelle opere del Pictor Optimus, non ci sono pressoché ombre nei suoi quadri, non c’è traccia dell’identità duplice e perturbante del demone metafisico. Proprio per questo si può pensare, per queste figure intessute di una sostanza quasi immateriale e spirituale, ad uno stato angelico, prima della vita terrena.

In questi scenari sospesi in un tripudio cromatico e luminoso, pienamente mediterraneo, non sappiamo se le figure che guardano lontano, verso ed oltre l’orizzonte, abbiano gli occhi pieni di nostalgia, di rimpianto oppure di desideri sognanti, di ansia conoscitiva nei confronti di un mondo per loro ancora ignoto, visto che forse devono ancora nascere. Così, vera e propria, emozionante, “danza della vita” è quella del grande trittico presentato in mostra: da sinistra a destra, con una rete di sguardi che sembra chiamare in causa direttamente l’osservatore, è tutta una ritmica progressione di situazioni che va dalla paura o perlomeno dalla forte titubanza delle prime due figure nel guardare fuori dall’edificio al gesto della donna che trattiene con preoccupazione l’uomo che si affaccia curioso, fino al volo periglioso dell’uomo sospeso nel vuoto. Sono esseri in attesa di nascere? Persone stanche di vivere? Prigionieri che cercano di fuggire per riconquistare la libertà? Non ha senso dare una risposta univoca perché queste opere si fondano su uno spirito interrogativo, tipico di chi, come Marilisa Pizzorno, cerca in profondità, nei misteri della vita. 

Con orgoglio e a testa alta, controcorrente rispetto alle mode creative odierne, Marilisa Pizzorno può dichiararsi artista “tradizionale”, nel senso illuminante inteso da Renzo Vespignani: “Io preferisco d’essere considerato pittore “tradizionale”, avvertendo che tradizione non è trasmissione di valori obsoleti, o far comparsa in una parata in costume: ma cercare “in avanti”, nel futuro, il passato remoto dell’uomo, il suo antico contratto (il patto costitutivo siglato nelle grotte di Altamira) col dolore, con la gioia, e col sollievo di esprimerli, tra l’operare della mano e l’opera “terrifica” della natura”. Ecco, forse le figure dipinte da Marilisa guardano lontano, verso il futuro per tornare alle origini, a quel villaggio dell’anima da cui tutti veniamo.