Il nudo silenzio

di Floriano De Santi, 2000


Segreto e piena evidenza: ecco il modo d’essere dell’arte di Marilisa Pizzorno, un’arte ricca di potenzialità espressive, ma anche di forza visionaria. Nutrita di fantasia, di abilità e perizia descrittive e illustrative, ma anche di uno sguardo fermo e intellettuale. Un’angelologia di eteree creature dai crani lunati abita cubi dalle cui finestre escono nuvole che si trasformano improvvise in draghi. Case volitano per l’aria, oppure posano per poi subito dopo riprendere il volo, con un processo poetico profondo e simbolico: come emergessero dal fondo di un abisso in cui la metafisica abbia precipitato ogni immagine, oscurando il mundus imaginalis che non è mai riconosciuto in ciò che l’opera descrive, ma in ciò che noi sentiamo in essa inafferrabile. Il carattere della tavolozza pizzorniana pare intornarsi al sogno, ma in luogo d’inquietare finisce col sospendersi in un’intima visione, in luogo di accendersi e all’uopo conflagrare tende come a raffreddarsi. L’intreccio è tra pittura e magia, tra le pulsioni fantastiche e una qualche iconografia ermetistica: in breve, tra procedimento frugifero e variazioni oniriche pregnanti e al tempo stesso slontananti, ferme e decise. La sapienza tecnica e compositiva si fonde con un’immaginazione alchemica, i cui tanti rivoli si diffondono di poi nelle miriadi di segni e percorsi iconici.

Su questa Stimmung metamorfica – nei dipinti Aspettando la pioggia e Lo specchio d’ottone del 2000 – la Pizzorno spinge l’immagine fino al punto di cogliere, nel cuore occulto e perturbante delle apparenze, una rete di corrispondenze sconosciute che possono delineare una diversa frontiera di senso. E nelle carte Casa in costruzione e graffiti del 1998 e Casa in costruzione dell’anno appresso si inoltra fin nell’inferno e negli abissi alla ricerca di una ragione “mostruosa”, che permette di cogliere, al di là delle forme nitidamente depositate nello stilema espressivo, le altre forme che si sono escluse o addirittura l’informe, che è possibile raggiungere e descrivere attraverso un lungo e ragionato regolamento di tutti i sensi.

Il paesaggio che gli angeli provvisori illuminano con il loro apparire e il loro immediato sparire, è quello dell’evanescenza delle cose nel nulla da cui esse sono scaturite, finché – come diceva Leopardi nel Cantico del gallo silvestre – “un silenzio nudo e una quiete altissima empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perdurassi”. Del resto, in Racconto interiore 3 del 1999, gli amanti si illudono di essere, mentre il loro abbraccio non fa che nascondere il polverizzarsi e svanire di tutto nel tutto, là dove noi non potremo mai raggiungerlo. Essi sono già l’annuncio e la prefigurazione del “nudo silenzio”, del silenzio che non è più muta attesa, ma compimento e fine.

Con un rigore che “dà i brividi”, la Pizzorno cerca di espellere dalla sua scrittura corsiva ogni pretesa e ogni responsabilità che non configurino tensione verso la bellezza epifania come cifra di una verità terribile e oscura, a cui abbiamo accesso soltanto attraversando il deserto abitato dai fantasmi e dalle ossessioni che da sempre sono rimasti ai margini delle rêverie visionaria, premendo sui suoi confini. In lavori quali Autoritratto nello studio del 1996 e in Coppia albero del 1997 l’immane disordine del mondo è diventato ormai un ordine spietato, che è protetto contro ogni emergenza, come quella – per esempio – rappresentata dai “replicanti”. Che sono angeli del moderno, portatori di un messaggio pronunciato il quale spariranno nel nulla, come gli altri angeli del moderno, di cui è piena l’opera di Benjamin.

Nella più recente produzione – grafica, pittorica e scultorea – della Pizzorno seguiamo il “racconto interiore” che ci trasporta dal nirgends, dal “non – luogo”, dallo spaesamento del cosmo, alle cose e alle figure che popolano la terra. E’ un tragitto che è un atto di redenzione del soggetto non dalla caducità, come qualcuno erroneamente ha fatto credere, ma nella caducità. Dove anche le ondate di fumo, le figure degli uomini e degli animali che emergono dal passato (Blake più di Escher, Rilke più di Kafka), improvvise, non fanno che rendere più incerti e strani i pensieri che ci accompagnano fin dentro il buio della nostra coscienza.

Sennonché, nella soglia del sogno e dell’Es, la Pizzorno cerca di dare ai luoghi e alle evocazioni della notte il massimo di lucidità, quasi una nitidezza accecante: un gusto da minuzioso pittore fiammingo. Le scene vengono costruite come congegni compatti e impenetrabili, dove gli oggetti-segni ritornano, e persino l’analisi psicologica – che avrebbe potuto far cedere le sue belle linee – diventa uno strumento geometrico.

L’artista sembra lontana; crediamo di coglierla nella leggerezza e ariosità del racconto: nel segno tenebroso di Narciso “figlio della luce”. Ma, in realtà, l’agile pennello della Pizzorno corre tra i fatti, toglie loro ogni peso, ogni rilievo, ogni gravità, lasciando il massimo di suggestione e di irradiazione. Condivide le sensazioni dei personaggi: e intanto scivola sopra le costruzioni, intatto da ciò che racconta, attratto da qualcosa che sta sempre più lontano, oltre l’ultimo orizzonte.