Divagazioni sugli angeli

di Roberto Sanesi, 1989


In qualche modo l’angelo assomiglia al sogno. Si può davvero descrivere? Figura che esprime qualcosa che non è apparenza (ovverosia l’emergere “in altra forma, con un sussulto, di una realtà abissale”), e che tuttavia deve mostrarsi, assumere sia pure enigmaticamente una sembianza, destinata ad essere stereotipa per essere accolta come significativa: e che però come Fanes, non a caso androgino, “ambiguo”, onnicomprensivo, deve per essere accolto sfuggire a una definizione. L’angelo appare a volte il daimon, il tramite di se stesso, il mezzo visibile della narrazione di cui è tema più ancora che protagonista. L’angelo del mostrarsi si traduce, assume una forma che non può che essere parallela: altro da altro, sempre detto da altro rispetto alla sua essenza.

Come il sogno raccontato, anche l’angelo è costretto a cedere a una necessità narrativa, o di descrizione visuale non riassumibile, non integrabile. Non è da escludere che sia per questo che il problema della rappresentazione finisca spesso col rintracciarsi nella relazione, contraddittoria e per assurda conseguenza chiarificatrice, fra la figura e le ali, fra il corpo vero e proprio e quell’emblema, le ali, che fanno di quel corpo il corpo di un angelo. E vorrei aggiungere: tutti gli angeli, in quanto messaggeri, in quanto si accetta che la loro funzione è di annunciare, sono “letterari”. Tutti gli angeli sono logoi. Quindi anche quelli di Marilisa Pizzorno, che rispondono a una specie di involontaria attività poetica attraverso il linguaggio del segno, del di-segno, che non a caso tende a unire e nello stesso tempo a dirottare, per figure e gesti, in una specie di saccheggio e riproposizione di elementi consolidati, il “senso” di una serie di eventi. I suoi angeli sono le figure di ciò che annunciano.

Mi pare quindi ovvio che siano visivamente “intermedi”. Con una forte propensione al manierismo, e qualche tentazione per un contesto talvolta arcaicizzante, altre volte egizio (la relazione, per esempio, che si può notare fra la geometria spoglia di certi frammenti architettonici e la struttura irrigidita delle ali), la Pizzorno èvoca angeli da un deposito di figure già sue e riconoscibili nella precedente attività pittorica. I disegni, le tempere, non sono che un’estensione e una precisazione di un costante esercizio sui temi del riflesso, della doppiezza, della correlazione enigmatica, della non-definizione di un evento sempre in atto. Questi suoi angeli (se sono angeli) si esibiscono in qualche caso con lo stesso tipo di sfuggente sostanza che hanno le immagini eidetiche, e – per quanto mi riguarda – come se in qualche stanza della sua mente vi fossero “donne che vanno e vengono parlando di Michelangelo”.

Calvi come manichini, perciò leggermente metafisici, ma muscolosi, atletici, se ne stanno quasi sempre presso un limite, un confine, un abisso, come in attesa di prendere una decisione, di compiere un gesto che si indovina di grande significato (una rivelazione, come si addice agli angeli) e che non sarà mai compiuto. Oppure, e anche qui si intuisce l’attesa, se non li rimando, si comprende che stanno compiendo uno sforzo: spesso letteralmente attraversano mura la cui resistenza ci sfugge, o con fatica perfino maggiore attraversano l’aria. In ogni caso si precipitano, premono, sono agonistici. Se è lecito interpretarli, direi volentieri che sono energie. Il che potrebbe significare, per ciò che riguarda l’intuizione tematica (non quella stilistica, anche se le origini sono convergenti), una parentela con le visioni di Blake, ivi incluso il principio del coinvolgimento, dell’abbraccio, della duplicità/integrazione del tipo yin e yang – che si può notare, in Blake, nel rapporto o imprigionamento fra San Michele e Satana, e in alcuni dei personaggi della Pizzorno per il fatto di possedere una sola ala, acquisendo unità e “progression” solo in caso di incontro a due: e magari da qualche parte apparirà una mano a disegnare un’ala sulle spalle di chi ne è privo. E quindi, per tornare a quell’idea di “scrittura” accennata all’inizio, come nel caso dell’angelo la cui testa è sostituita da una luminosissima sfera (del sole): angelo che esplicitamente riflette, o per meglio dire “riscrive” con una penna della sua ala l’emblema solare che gli appartiene – ricordando in modo indiretto le due incisioni di Blake dedicate a se stesso e al fratello Robert: nelle quali, appunto, un segno astrale è associato al ginocchio di entrambi i personaggi. Introducendo in tal modo il simbolo dell’energia, della durata, della continuità, che per allusione ai miti di Saturno giustifica anche qualche risoluzione di tonalità funebre, sebbene in genere non sia il dramma ad essere evidenziato, ma una sorta di perplessità dell’eros.

Si tratta, mi rendo conto, di divagazioni. Ma al di là della perizia tecnica, della freschezza espressiva, della suggestione evidente delle immagini, si tratta di divagazioni che dipendono dai disegni e dalle tempere di Marilisa Pizzorno con una naturalezza pari alla libertà con la quale suggeriscono coinvolgimenti in direzione mitizzante. Ed è in questa direzione che questi angeli andranno legittimamente seguiti.