Disegni e incisioni

di Paolo Rizzi, 1974
 

Marilisa Pizzorno possiede almeno «in nuce», due doti: una rara abilità grafica e una spiccata inclinazione allusivo-simbolica. Della prima mi ero reso conto già quattro anni orsono in occasione di una personale che la pittrice (allora mestrina di residenza) aveva allestito alla galleria «S. Vidal» e gli elogi per l’allora sconosciuta giovane artista, da parte dello scettico e sospettoso pubblico veneziano, furono unanimi. Dell’inclinazione allusivo-simbolica, che è andata maturando nel frattempo, ho avuto piacevole dimostrazione nell’osservare le ultime opere. Si sa che la forzatura del quoziente simbolico, come pure l’uso della «categoria» manieristica dell’ambiguità, è una delle componenti più evidenti di certa grafica «impegnata» d’oggi.

La Pizzorno non fa quindi che inserirsi in una tendenza che ha già autorevoli interpreti. Ma ciò che la distingue è l’adozione, da parte sua, di mezzi espressivi che diremmo tradizionali (cioè, il bel segno, la partenza naturalistica, la fluidità del “ductus” grafico) in contrapposizione all’uso, ben più generalizzato in molti grafici d’oggi, di schemi tratti dal riposto fotografico. In altre parole: essa non rinuncia alle qualità più peculiari del disegno. Anche laddove appaiono iterazioni e serializzazioni, dovute allo stesso contesto sociologico in cui affonda l’analisi semantica, esse vengono risolte con una freschezza di tratto che mette in rilievo più il momento dell’emozione diretta che quello della programmazione grafica.

La figura umana, che resta il centro dell’attenzione della Pizzorno, assume quindi tutta una carica di immediatezza, con momenti di abbandono onirico, con turbolenti, slanci sentimentali, punte aggressive: è l’arco dell’espressività che si tende, al di la della rigidezza della sagoma e del «clichè» stereotipo. Ecco che i vari motivi con sottofondo più o meno scopertamente simbolico (la gabbia, la giostra umana, la massificazione dell’individuo, l’amore, la solitudine, gli uomini legati) si animano di richiami e allusioni, rimandando ad una realtà “altra” che appare e scompare nell’oscuro mondo della psiche.

L’importante, infondo, è che l’immagine non si cristallizzi nella sua ricezione piena, e quindi non si vuoti di significato una volta che venga trasmessa: deve restare quell’aria di mistero, quell’insondabile enigma, quella continua «disponibilità» del segno, in modo che si instauri un colloquio aperto tra l’opera e il suo fruitore. Momento simbolico e momento estetico sono presenti nelle incisioni e nei disegni della Pizzorno: devono fondersi forse ancor più, scoprendo la selva selvaggia di sentimenti e slanci che premono dal di sotto. Questo urgente interno lo si intuisce. Certo, deve venire alla luce ancor più; ma l’operazione maieutica sta anche in noi, nei lettori di questi fogli così belli e inquietanti.