Il corpo e la memoria

di Giorgio Seveso, 2001


Marilisa Pizzorno è una delle artiste d’immagine tra le più suggestive, singolari e autonome oggi in Italia. E non sembri iperbolica, o di circostanza, una tale definizione. Da Franco Solmi a De Micheli, da Rossana Bossaglia e Emilio Tadini, Roberto Sanesi, Floriano De Santi e quant’altri di lei si sono occupati negli anni, tutti ne hanno sottolineato a più riprese e in vario modo il vigoroso, atipico talento nell’intreccio tra pienezza formale e intensità lirica, tra pittura piena, soda, luminosamente risolta, e riflessione nutrita di assorte metafore e immaginazioni simboliche, di traslati, addensamenti e slargamenti poetici.

Le allegorie di Marilisa, i suoi sogni ricorrenti, i garbati enigmi delle loro sostanze rappresentano qualcosa di magicamente sospeso in una dimensione fuori dal tempo e dalla cronaca, qualcosa che increspa appena un limbo ovattato della coscienza e che tuttavia, per interiori ri-conoscimenti, per intimi e minuziosi rimbalzi lirici, per seduzioni sottili quanto misteriosamente efficaci, giunge ogni volta ad alludere proprio al Tempo e al Mondo, ad evocare l’eternità domestica e quotidiana dell’uomo e dell’esistenza.

Come può accadere per i personaggi silenziosi di un Savinio o per altri versi di un Balthus, per la loro luce inorganica, mentale, interiore, i personaggi di Marilisa, i suoi angeli innamorati e perplessi dinnanzi alla vita, rendono palpabile l’impalpabilità dei sentimenti, svelano i colori velati delle emozioni: narrano la dolcezza di un ilare, ludico e insieme assorto naufragare tra le onde lente dell’onirico, quando appunto la coscienza, per grazia ed acutezza di sensibilità, può divenire lo schermo terminale sul quale guizzano inaudite sintesi della mente e del cuore, fulminee e poderose intuizioni, persuasive quanto inquietanti evocazioni.

E’ come una sorta di écriture automatique, di surreale “scrittura” di figure? Forse. Ma credo piuttosto in una riflessione solo apparentemente distaccata dal filo della realtà. Un rinvenimento di idee figurali sedimentate ed embricate l’una nell’altra sul fondo dell’animo e della memoria, che la poesia di Marilisa riordina e districa in ogni loro misura, ricostruendo unità significanti e interroganti, monadi di sommesso splendore e di misteriosi incantamenti. La polpa vera del suo lavoro trova proprio qui le sue ragioni: in questo territorio di garbato naufragio dell’Io cosciente nella diversa e speciale consapevolezza della poesia, delicata com’è delicata la luce della luna. E’ un territorio particolare della sensibilità e dell’intelligenza plastica, in cui coabitano da una parte la consapevolezza profonda, l’eterna ambiguità sospesa tra essere e sognare e, dall’altra, la volontà ineludibile di rappresentare i segnali, i simulacri, i simboli del proprio vissuto più avvertito e sofferto.

A fronte degli opportunismi e dei fatui estetismi di tanta parte dell’arte italiana attuale, più interessata alle mode culturali che all’espressione dei propri veri sentimenti e giudizi, questa sua intensa enunciazione seduce e intriga per la sua forte compiutezza, per la sua maturità, per la sua autonomia. La pittura vive, qui, infatti una sua strana dimensione atemporale, quasi sospesa al fiato leggero di un disegno botticelliano, all’apparenza di un sinopia classica, sempre fresca, cristallina, cantante. Ed anche quando l’immagine si traduce nel volume della scultura, nel calore della terracotta o nella lucentezza del bronzo, ogni personaggio e ogni gesto, fissato in una tattile emblematicità, sembra giocare un suo assorto giuoco interiore, come appeso al proprio stupore, stralunato tra le quinte d’aria e di luce senza tempo di un teatrino curiosamente inquieto. Il lavoro di Marilisa Pizzorno è nelle linee – dicevo – di un’arte contemporanea risolutamente ed esplicitamente figurativa eppure mai e in nessun modo retorica o “contemplativa”, foltissima d’umori esistenziali ma, pure, di intrinseci valori plastici. Un orientamento, questo, che non attiene soltanto ai termini formali dell’immagine, ma che al contrario è principalmente retto da una scelta interiore di sensibilità e di immaginazione, cioè da un sentimento generale dell’immagine stessa. Un sentimento complessivo, che si costituisce, appunto, in poetica complessiva.

Credo che, oggi più che mai, questa appartata fedeltà figurale costituisca anche un valore in sé, da sottolineare e applaudire. Si avverte subito, difatti, guardando queste sue composizioni cordiali e inquiete, come tale visione poetica sia frutto e insieme condizione di una indubbia, approfondita maturità culturale, atteso che le ragioni tematiche dominanti del suo lavoro si sono venute suggestivamente, chiarendo ed affilando, perdendo per strada le scorie più letterarie e le eccessive sovrapposizioni simboliche che rappresentano, talvolta, il rischio e/o la debolezza di visioni consimili. Perché, appunto, la scelta figurativa, il suo “destino” ironico, hanno potuto anche rappresentare un rischio: nella sacrosanta reazione ai decenni di futilità concettuali e formali che abbiamo traversato, troppe illustrazioni, infatti, troppe descrizioni scolastiche o eleganze esornative, troppe figurazioni accademiche vecchie e nuove hanno riempito, come per una sorta di perverso contrappasso, i luoghi del nostro tempo… Marilisa invece, fortunatamente e giustamente, s’è tenuta sempre fuori da questo pericolo, davvero troppo concentrata sull’intensità delle sue ragioni per prestare attenzione a questo tipo di problemi. Addolcendo i volumi delle anatomie, troncando gli spazi che li connotano, accennando voli d’angelo e passi di danza tra enigmi di corpi senza veli e finestre spalancate su un mare di atmosfere cristalline e di azzurri mediterranei, ha operato là dove la forma s’incontra, modernissimamente, con la tradizione, e dove i sogni affabili del cuore trovano una loro gentile melanconia, un loro spleen felpato ed assorto. L’incontro con il suo lavoro, insomma, è una esperienza assai singolare e rara per un critico che, come me, ama appassionatamente l’arte d’immagine e di racconto. Racconto? Certo, perché anche nel suo mondo pittorico c’è sempre un intreccio incantato tra il dato autobiografico e la realtà fenomenica, tra cronaca personale e storia universale. E’ un intreccio che si collega alle cose sempre in maniera indiretta, per allusione e non per citazione esplicita, per metafora e non per descrizione. Tanto che è proprio qui, nella distanza tra il detto e il sottaciuto di questi corpi angelici d’uomo e di donna quasi metafisici, nell’aria lieve di nubi sognanti in cui sono immersi, nella loro coscienza anatomica insieme sensuale e disincarnata, che si crea il loro mistero di poesia e di silenzio, sospeso, sempre, ad un equilibrio precario, ad un tremito di indeterminatezza spaziale riempito di accadimenti minimi, gesti emblematici, fascino lirico.

Quel mistero e quel fascino che sono l’esito espressivo più bruciante e maturo, appunto, di questa sua poesia per immagini: carne, gesti, trasalimenti di memoria, sogni del mondo che si accarezzano e si dispiegano attorno a minuziose fantasticazioni, intinte per incantamento nella memoria e, insieme, simultaneamente, nella coscienza del presente. Con un indicibile, sovrana, indimenticabile suggestione.